Disclaimer: come tutti i messaggi qui pubblicati, anche questo rappresenta solamente i miei pensieri e le mie riflessioni, a volte dure, spesso criticabili,
ma basate sulla mia esperienza diretta.
ma basate sulla mia esperienza diretta.
Durante una pausa fra le lezioni di informatica, ho sfogliato il giornale (Corriere della Sera - 13/11/2010) e la mia attenzione è stata attirata da un articolo di Isidoro Trovato che parla di come la Autorità di Vigilanza sui lavori pubblici possa far entrare l'Università nelle gare di appalto a fianco dei professionisti. In poche parole, questo significa che i docenti, i ricercatori e tutto il personale strutturato delle università potrebbe partecipare a gare di appalto pubbliche andando a minare pericolosamente, almeno così sostiene Gianni Rolando (presidente del Consiglio Nazionale degli Ingegneri), le posizioni oggi appannaggio esclusivo dei professionisti. Essendo io ingegnere, ed avendo lavorato per anni all'università, dovrei quindi trovarmi in accordo con Rolando, e invece ritengo che lo sbarramento di questa proposta sia semplicemente ridicolo.
Anzitutto ritengo che le università, in generale, siano troppo slegate dal mondo lavorativo senza quindi avere idea dei problemi che tale mondo sta affrontando. Ci si trova quindi nella condizione nella quale le università lavorano a progetti estremamente innovativi il piu' delle volte spinti non da problemi del mondo lavorativo ma da interessi puramente di ricerca. E per fortuna: sono un forte sostenitore dell'iniziativa individuale. Tuttavia ci si trova anche nella condizione ove, per dimostrare che il proprio lavoro scientifico è valido, si debbano trovare i problemi che la propria ricerca risolve. Ma questo è un modo sbagliato di ragionare: è meglio partire dal problema e trovare la soluzione, piuttosto che avere l'intuizione e cercare il problema che risolve (o il contesto ove collocarla). Così facendo infatti si rischia solo di produrre soluzioni per un mercato non ancora pronto, e infatti molto spesso i risultati della ricerca scientifica vengono applicati diversi anni dopo al mondo lavorativo. E non si tratta di tempi canonici per la stabilizzazione della soluzione, ma semplicemente di tempi nei quali il mercato non è recettivo poiché occupato a risolvere altri problemi che le università reputano banali e quindi non prendono in considerazione.
Ulteriore ostacolo al dialogo fra il mondo del lavoro e delle università sono, molto spesso, i professori stessi: ogni professore ha un suo ambito di ricerca/interesse e tenta di forzare tale ambito ai suoi studenti, stabilendo spesso anche confini ben marcati che separino la propria ricerca da quella dei colleghi. Ci si ritrova quindi con studenti che svolgono attività di ricerca in un ambito (es. database) senza mettere il becco in altri ambiti (es. sistemi operativi) per volontà dei loro professori. I professori dovrebbero invece mettere a disposizione la loro esperienza affinché gli studenti, preso in carico un problema concreto del mondo del lavoro, possano affrontarlo e risolverlo agevolmente. E in questo modo si avrebbero diversi vantaggi:
Torniamo ora all'argomento di discussione specifico: il possibile contrasto fra i professionisti e gli accademici. Di cosa dovrebbero avere paura i professionisti? Dopotutto, la loro professionalità non dovrebbe essere messa in discussione da un qualche professore o studente che si presenta sul mercato: quello che conta, che si tratti di professore, studente, o libero professionista, è l'esperienza e l'abilità, due qualità che non possono essere conquistate stando solo dietro ad una cattedra o solo nel mondo del lavoro. Io, da ingegnere, non temo il confronto onesto con un altro ingegnere, e poco mi importa sia un docente, uno studente o un professionista: per quello che riguarda il confronto è solo un mio "sfidante". Quali scenari dunque si prospettano e perché spaventano tanto i professionisti? Io riesco ad individuare queste possiblità:
Anni fa una protesta analoga venne fatta dal lato accademico, spaventato dal possibile ingresso di industrie e professionisti nel loro "regno". E anche in quella occasione io evidenziai i miei dubbi su tanta rigidità: dopotutto aprire l'università all'industria significa, come già detto sopra, aprire la strada a nuovi posti di lavoro. Rolando, che a difesa della sua tesi sottolinea il periodo di crisi del mercato, dovrebbe tenere in considerazione anche questo fattore: dare spazio di lavoro ai giovani significa aumentare l'occupazione, non aumentare la disoccupazione dei professionisti. E quindi mi viene solo da ribadire come ognuno dovrebbe smettere di guardare al prioprio orticello, ma assumere una visione piu' ampia della questione.
Come riflessione conclusiva mi viene in mente che, se entrambe le parti, in tempi e con motivazioni diverse, non vogliono mischiarsi, forse il vero problema non è tanto sulle competenze, sulle capacità, sulla professionalità, ma sulla mancanza di un confronto onesto che tuteli entrambi i lati affinché solo chi è meritevole possa avere successo.
Ma forse sono io che non ho ben capito il reale problema....
Anzitutto ritengo che le università, in generale, siano troppo slegate dal mondo lavorativo senza quindi avere idea dei problemi che tale mondo sta affrontando. Ci si trova quindi nella condizione nella quale le università lavorano a progetti estremamente innovativi il piu' delle volte spinti non da problemi del mondo lavorativo ma da interessi puramente di ricerca. E per fortuna: sono un forte sostenitore dell'iniziativa individuale. Tuttavia ci si trova anche nella condizione ove, per dimostrare che il proprio lavoro scientifico è valido, si debbano trovare i problemi che la propria ricerca risolve. Ma questo è un modo sbagliato di ragionare: è meglio partire dal problema e trovare la soluzione, piuttosto che avere l'intuizione e cercare il problema che risolve (o il contesto ove collocarla). Così facendo infatti si rischia solo di produrre soluzioni per un mercato non ancora pronto, e infatti molto spesso i risultati della ricerca scientifica vengono applicati diversi anni dopo al mondo lavorativo. E non si tratta di tempi canonici per la stabilizzazione della soluzione, ma semplicemente di tempi nei quali il mercato non è recettivo poiché occupato a risolvere altri problemi che le università reputano banali e quindi non prendono in considerazione.
Ulteriore ostacolo al dialogo fra il mondo del lavoro e delle università sono, molto spesso, i professori stessi: ogni professore ha un suo ambito di ricerca/interesse e tenta di forzare tale ambito ai suoi studenti, stabilendo spesso anche confini ben marcati che separino la propria ricerca da quella dei colleghi. Ci si ritrova quindi con studenti che svolgono attività di ricerca in un ambito (es. database) senza mettere il becco in altri ambiti (es. sistemi operativi) per volontà dei loro professori. I professori dovrebbero invece mettere a disposizione la loro esperienza affinché gli studenti, preso in carico un problema concreto del mondo del lavoro, possano affrontarlo e risolverlo agevolmente. E in questo modo si avrebbero diversi vantaggi:
- le aziende acquisterebbero molta fiducia nelle università;
- gli studenti acquisterebbero fiducia nelle proprie capacità (meglio 10 successi piccoli ma certi che un grande successo non applicabile al mercato);
- gli studenti troverebbero da lavorare piu' facilmente, avendo maturato una esperienza diretta nel mondo del lavoro;
- i professori resterebbero automaticamente aggiornati sulle problematiche del mercato.
- rilasciare un progetto come OpenSource significa dare al mondo (e quindi ad altre università) i propri sforzi di ricerca;
- un progetto OpenSource potrebbe vedere la partecipazione di altri professionisti o università che mostrino una superiorità schiacciante in tale ambito.
Torniamo ora all'argomento di discussione specifico: il possibile contrasto fra i professionisti e gli accademici. Di cosa dovrebbero avere paura i professionisti? Dopotutto, la loro professionalità non dovrebbe essere messa in discussione da un qualche professore o studente che si presenta sul mercato: quello che conta, che si tratti di professore, studente, o libero professionista, è l'esperienza e l'abilità, due qualità che non possono essere conquistate stando solo dietro ad una cattedra o solo nel mondo del lavoro. Io, da ingegnere, non temo il confronto onesto con un altro ingegnere, e poco mi importa sia un docente, uno studente o un professionista: per quello che riguarda il confronto è solo un mio "sfidante". Quali scenari dunque si prospettano e perché spaventano tanto i professionisti? Io riesco ad individuare queste possiblità:
- l'università inonda il mercato con personale a basso costo e alta qualità: il prezzo dei professionisti è costretto ad abbassarsi di conseguenza per poter reggere la concorrenza, e questo è un bene per chi richiede il servizio;
- l'università inonda il mercato con personale a basso costo e bassa qualità: è evidente che tale personale non sarà in grado di fornire un servizio alla pari di quello di un professionista esperto, e quindi tale categoria non ha nulla da temere da questo confronto. Va inoltre notato che un professionista non può tutelarsi da questa problematica che non è infatti legata al mondo accademico.
- l'università inonda il mercato con personale ad alto costo e di alta qualità: in questo caso i professionisti occupano la seconda posizione nelle scelte mission critical, ma il loro costo inferiore li rende una scelta papabile per tutti gli altri casi.
- l'università inonda il mercato con personale a basso costo, bassa qualità da affiancare a personale professionale: in questo caso si assiste alla formazione di un nuovo professionista a "discapito" di un altro professionista. Ma occorre ricordare che quest'ultimo sarà stato a sua volta formato (si spera) a "discapito" di un docente universitario...
Anni fa una protesta analoga venne fatta dal lato accademico, spaventato dal possibile ingresso di industrie e professionisti nel loro "regno". E anche in quella occasione io evidenziai i miei dubbi su tanta rigidità: dopotutto aprire l'università all'industria significa, come già detto sopra, aprire la strada a nuovi posti di lavoro. Rolando, che a difesa della sua tesi sottolinea il periodo di crisi del mercato, dovrebbe tenere in considerazione anche questo fattore: dare spazio di lavoro ai giovani significa aumentare l'occupazione, non aumentare la disoccupazione dei professionisti. E quindi mi viene solo da ribadire come ognuno dovrebbe smettere di guardare al prioprio orticello, ma assumere una visione piu' ampia della questione.
Come riflessione conclusiva mi viene in mente che, se entrambe le parti, in tempi e con motivazioni diverse, non vogliono mischiarsi, forse il vero problema non è tanto sulle competenze, sulle capacità, sulla professionalità, ma sulla mancanza di un confronto onesto che tuteli entrambi i lati affinché solo chi è meritevole possa avere successo.
Ma forse sono io che non ho ben capito il reale problema....
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